L’inefficacia della clausola floor nel mutuo. Decisione del Collegio di Coordinamento ABF, 8 novembre 2018, n. 23294.

L’inefficacia della clausola floor nel mutuo. Decisione del Collegio di Coordinamento ABF, 8 novembre 2018, n. 23294.

Numero Sentenza 23294 Anno Sentenza 2018 Data Sentenza 08/11/2018

Il Collegio di Coordinamento dell’Arbitro Bancario Finanziario con la decisione n. 23294/2018, in relazione all’efficacia della clausola floor in un mutuo, ha statuito che: “nel contratto di mutuo non è giuridicamente configurabile un tasso di interesse negativo che incida sul capitale mutuato. Conseguentemente, quando il tasso d’interesse sia stato pattuito in misura variabile, esso non può assumere valore negativo in alcun momento della durata del contratto”.

 I fatti di causa

Parte ricorrente stipulava con un intermediario successivamente incorporato nella resistente, un contratto di finanziamento alle condizioni riservate al personale dipendente. Il tasso degli interessi corrispettivi venne fissato al tasso Euribor a un mese, diminuito di 0,875 punti percentuali. Il contratto originario non prevedeva alcuna clausola floor. Ciò nonostante, l’intermediario comunicava alla cliente la modifica unilaterale del regolamento contrattuale e l’introduzione di un tasso floor incidente sull’alea contrattuale. Parte ricorrente adiva l’Arbitro Bancario Finanziario contestando la modifica unilaterale delle condizioni contrattuali e chiedendo, dunque, l’applicazione delle condizioni economiche originariamente pattuite per le rate future, nonché la restituzione degli interessi eventualmente corrisposti in eccedenza. L’intermediario, contrastando quanto detto da parte ricorrente, affermava che a seguito dell’anomala discesa del tasso Euribor, aveva introdotto dei limiti all’applicazione del tasso originariamente previsto, mediante l’introduzione di un tasso minimo (floor) e di un tasso massimo (cap), nel rispetto dei principi di trasparenza e pubblicità, allo scopo di: i) ridurre la disparità di trattamento nei confronti degli altri dipendenti dell’intermediario non provenienti dalla banca incorporata; ii) mantenere una sia pur minima onerosità del contratto di mutuo, che è per sua stessa natura contratto oneroso; iii) realizzare, di fatto un “interpretazione (correttiva) del contratto”, sussistendo tra le parti una “presupposizione” in merito al fatto che l’Euribor non avrebbe mai potuto diventare negativo. L’intermediario rilevava inoltre che la suddetta modifica del regolamento contrattuale era stata comunicata alla cliente tramite il servizio postel e che la spontanea esecuzione decontratto senza alcuna contestazione per un periodo di otto anni aveva ingenerato un affidamento qualificato in capo all’intermediario circa l’accettazione dell’intervento correttivo apportato sui prestiti a fronte dell’andamento negativo del tasso Euribor, chiedendo pertanto in primis l’inammissibilità della domanda stante la natura consulenziale della domanda ed in subordine il rigetto del ricorso.

I motivi della decisione del Collegio Abf di Milano di rimettere la questione al Collegio di Coordinamento

Il Collegio ABF di Milano ha respinto l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’intermediario affermando quindi l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 118 T.U.B. Il Collegio territoriale rilevò che, fissato un tasso variabile, la sua fluttuazione non incontrerebbe alcun limite giuridico, poiché non si darebbe nessun divieto normativo di convenire un algoritmo di calcolo suscettibile di fluttuazioni anche negative, ossia di condurre alla fissazione di tassi di interesse negativi per la banca e positivi per il cliente, ma che un diverso orientamento ritiene che la struttura causale del mutuo escluda la configurabilità di tassi negativi, poiché, qualificandosi come frutto civile, l’interesse costituirebbe il corrispettivo del godimento del denaro tratto dal mutuatario (art. 820 cod. civ.). Pertanto il vero cuore del problema consisteva nello stabilire se la clausola di indicizzazione senza limiti intrinseci potesse produrre un’obbligazione ulteriore e diversa che vedesse la banca debitrice di somme in favore del mutuatario e se la dinamica negativa dei tassi potesse generare un debito a carico della banca, in mancanza di una pattuizione espressa che lo prevedesse, precisando che altro è la clausola di interessi; altro, il criterio di determinazione della prestazione di interessi. Il Collegio di Milano pertanto, considerati la notevole gravità del problema e il non sicuro orientamento dei Collegi territoriali, ha ritenuto opportuno rimettere la decisione al Collegio di Coordinamento.

L’art. 118 del T.U.B e l’esercizio dello ius variandi

Una delle disposizioni più controverse del diritto bancario è senza dubbio costituita dall’art. 118 t.u.b. che consente alla banca, ma solo in presenza di determinati presupposti, di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali precedentemente pattuite con il cliente [3]. A tale potere ci si riferisce usualmente con l’espressione latina di “ius variandi” [4].Dal momento che si tratta di un enorme beneficio per le banche, il diritto di modificare unilateralmente le condizioni di contratto costituisce una clausola molto ricorrente, che si rinviene in pressoché tutti i contratti bancari. Si tratta di una facoltà particolarmente pregnante, in quanto agli istituti di credito viene riconosciuto il potere di modificare anche le condizioni economiche del rapporto. Le banche hanno un forte incentivo a procedere in tal senso, stante l’esistenza di un evidente conflitto d’interessi rispetto alla loro controparte contrattuale: ogni modifica contrattuale a sé favorevole rende il contratto più profittevole per l’istituto di credito e, per converso, più svantaggioso per la controparte. Le banche possono pertanto essere spinte ad adottare comportamenti definibili di moral hazard (azzardo morale): una volta concluso il contratto sono incentivate a procedere a un progressivo peggioramento delle condizioni applicate al cliente. L’unico realistico argine a questo possibile esito è dato dalla prescrizione di legge per cui le variazioni devono avere un “giustificato motivo”. La legge prevede che qualunque modifica unilaterale delle condizioni contrattuali deve essere comunicata espressamente al cliente secondo modalità contenenti in modo evidenziato la formula “proposta di modifica unilaterale del contratto”, con preavviso minimo di due mesi, in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato dal cliente (art. 118, 2° co, 1° periodo, t.u.b.). È principio elementare di civiltà giuridica che le condizioni contrattuali non possano essere modificate e applicate – per così dire – “di nascosto” dal cliente, ma gli debbano al contrario essere previamente comunicate. Bisogna dire che, in effetti, le banche potrebbero avere interesse ad applicare le modifiche senza prima averle comunicate (cercando, così, quasi di tenerle nascoste): una volta pattuito in contratto lo ius variandi [5], per gli istituti di credito sarebbe estremamente vantaggioso poter modificare le condizioni contrattuali senza nemmeno avvertire la clientela. In questo modo una parte dei clienti potrebbe non accorgersi delle modificazioni apportate, soprattutto se di valore non ingente, e subirle passivamente (a tutto beneficio della banca). Per evitare possibili abusi del genere, la legge richiede una comunicazione espressa della modifica contrattuale e, inoltre, esige un particolare livello di formalizzazione della presentazione di tale comunicazione. Essa richiede difatti la specifica evidenziazione della frase “proposta di modifica unilaterale del contratto”, affinché il cliente si concentri sul significato e sugli effetti della comunicazione che riceve. Nel caso di specie, tuttavia la comunicazione inviata dall’intermediario, non recava la dicitura “Proposta di modifica unilaterale del contratto” e peraltro non era nemmeno rispettosa del preavviso minimo di trenta giorni. Tuttavia, tale affermazione non risolve la controversia perché occorre prendere in considerazione la tesi dell’intermediario, il quale nega di avere esercitato lo ius variandi [6], sostenendo, invece, di avere confermato il meccanismo di determinazione del tasso d’interesse previsto dal contratto e di essersi limitato ad introdurre dei limiti alla sua applicazione rappresentati da un tasso minimo (floor) e da un tasso massimo (cap). Questa – sempre secondo l’intermediario – non sarebbe una manovra di modifica unilaterale dei tassi inquadrabile nell’ambito della disciplina dell’art. 118 T.U.B, in quanto venivano semplicemente indicate delle condizioni al verificarsi delle quali si sarebbero applicati limiti che, da un lato, erano favorevoli al mutuatario (cap). In buona sostanza, si tratterebbe di un’interpretazione del contratto piuttosto che di una modifica del medesimo, tanto più che si deve ritenere che vi fosse nelle parti una “presupposizione”, a suo tempo consapevolmente, assunta, che l’Euribor non avrebbe mai potuto diventare negativo. Questa tesi non appare però corretta in quanto la giurisprudenza arbitrale ritiene che l’applicazione di clausole floor cap, non previste da idonea clausola contrattuale, comporti sostanziale modifica del tasso contrattualmente stabilito poiché esse introducono un limite non pattuito alla prevista dinamica.

L’applicabilità o meno di tassi di segno negativo da parte dell’intermediario

Il Collegio di Coordinamento ha ritenuto acquisito che l’eventuale verificarsi di tassi d’interesse negativi non possa in nessun caso comportare la diminuzione del capitale mutuato. Tale affermazione è imposta dalla lettera e dalla ratio dell’art. 1813 cod. civ.; esso descrive il mutuo come il contratto con il quale una parte consegna all’altra una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità. Se, dunque, il mutuatario deve restituire altrettanto della stessa specie e qualità rispetto a ciò che aveva in precedenza ricevuto, appare di tutta evidenza che, nell’ipotesi consueta in cui oggetto del mutuo sia una somma di danaro, la restituzione dovrà necessariamente riguardare una somma nominalmente identica a quella mutuata. Più complesso è il tema relativo agli interessi pattuiti. Il primo comma dell’art. 1815 cod. civ. stabilisce che, salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante e il successivo art. 1820 prevede che, se il mutuatario non adempie l’obbligo di pagamento degli interessi, il mutuante può chiedere la risoluzione del contratto. In altri termini: il mutuo si presume oneroso, a meno che le parti non si siano avvalse della facoltà di renderlo gratuito. Nella specie è pacifico che il contratto inter partes preveda la corresponsione di interessi che – come si è visto – sono stati pattuito al tasso Euribor a un mese, diminuito di 0,875 punti percentuali. La questione che si pone è stabilire se sia configurabile, allorché venga pattuito un interesse a tasso variabile che, anche per effetto dello spread contrattuale, il tasso possa assumere valore negativo per l’intermediario. Dal punto di vista economico, considerata la dinamica delle scelte di portafoglio di una banca, la stipula di un contratto di mutuo è una delle numerose possibili allocazioni delle poste all’attivo. La sua convenienza, dal punto di vista della banca, è pertanto strettamente legata all’andamento dei rendimenti delle possibili allocazioni alternative. In questo periodo storico, alcune allocazioni, quali ad esempio i depositi presso la BCE, offrono tassi di interesse negativi. La stessa cosa può accadere anche nel rapporto con i clienti. Il motivo per cui le banche possono essere disposte a impiegare dei fondi ottenendo un interesse negativo è che, accanto al beneficio che la banca offre al mutuatario concedendogli il prestito, essa ottiene a sua volta un beneficio implicito dal servizio di “custodia” dei propri fondi da parte del mutuatario. In condizioni normali il primo ha un valore superiore al secondo, e i tassi di interesse sui prestiti sono pertanto positivi, perché chi ha il beneficio maggiore, il mutuatario, remunera chi ha quello minore, la banca. In questo periodo storico accade il contrario, e i tassi di alcune tipologie di impiego dell’attivo possono essere negativi. Anche se economicamente corretta, l’argomentazione risulta priva del necessario supporto giuridico. Nella pratica quotidiana le parti stipulano un solo contratto: quello di mutuo; esso ha lo scopo di trasferire una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili da un soggetto ad un altro, che ne diviene proprietario con obbligo di restituzione, normalmente corrispondendo un certo interesse. La causa (concetto diverso dal motivo soggettivo proprio di ciascuno dei contraenti) del mutuo oneroso, che è un contratto tipico, consiste nello scambio tra la possibilità di utilizzo di un bene fungibile e il pagamento degli interessi concordati; in altri termini, la causa del contratto di mutuo è il finanziamento. Il servizio di custodia dei fondi da parte del mutuatario, non risultando contrattualmente stabilito, rimane estraneo alla causa – che deve essere presente nel momento della conclusione del contratto e che rimane immutata per tutta la sua durata – oltre che all’oggetto del contratto e, semmai, ne costituisce un mero effetto collaterale. E’ nozione di comune esperienza che nella consueta pratica bancaria, sussiste il presupposto oggettivo, avuto ben presente da entrambe le parti al momento della conclusione del contratto, relativo al carattere oneroso del mutuo. E non potrebbe essere diversamente, essendo noto a tutti che la banca è un’istituzione che agisce a fine di lucro. La tesi prospettata trova ulteriore sostegno normativo nell’art. 1173 cod. civ. Gli interessi, una volta che sono stati pattuiti, costituiscono un’obbligazione del mutuatario nei confronti del mutuante. L’articolo sopra citato stabilisce che le obbligazioni derivano (oltre che da fatto illecito o da ogni altro atto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico) da contratto. E i contratti di mutuo stipulati con le banche prevedono, appunto, la corresponsione di interessi solo in favore del mutuante. La conseguenza di ciò è che il carattere oneroso del mutuo rende incompatibile la configurabilità di un interesse negativo. Quindi la previsione di un tasso d’interesse variabile, nella ipotesi più favorevole al cliente e peggiore per l’intermediario potrà determinare la gratuità del mutuo, ma, considerata la volontà delle parti, il mutuo non potrà mai concettualmente divenire remunerativo per il mutuatario. L’ultima questione da esaminare è la seguente: una volta affermata la non configurabilità di un interesse negativo occorre accertare se l’interesse non possa mai divenire negativo o se, invece, nell’arco della durata del contratto possa risultare talvolta negativo purché non lo sia nel suo complesso. In altri termini, come rilevato nell’ordinanza di rimessione, occorre stabilire se il finanziamento divenga gratuito considerando lo svolgimento dell’intero piano di ammortamento al fine di calcolare la complessiva prestazione feneratizia e così verificare se alla fine del rapporto la banca abbia ricevuto o meno interessi, nessun interesse o addirittura abbia essa pagato interessi.

Il combinato disposto degli art. 820 e 821 cod. civ

La soluzione a quanto poc’anzi detto, è offerta dal combinato disposto degli art. 820 e 821 cod. civ. Il terzo comma dell’art. 820, che così recita: “Sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni”. Il terzo comma dell’art. 821 inoltre stabilisce che “I frutti civili si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto”. Se, dunque, gli interessi sul capitale mutuato sono frutti civili che il mutuante acquista giorno per giorno, si rivela del tutto evidente che in nessun momento della durata del contratto gli interessi potranno assumere valore negativo. La normalità è che i frutti abbiano valore positivo. Si può verificare – analogamente a quanto accade con i frutti naturali – che il capitale non generi frutti, ma non è razionalmente prima che giuridicamente concepibile che un frutto – naturale o civile che sia – cagioni il depauperamento del soggetto che ha diritto di percepirlo. Pertanto, nel contratto di mutuo non è giuridicamente configurabile un tasso di interesse negativo che incida sul capitale mutuato. Conseguentemente, quando il tasso d’interesse sia stato pattuito in misura variabile, esso non può assumere valore negativo in alcun momento della durata del contratto. La clausola floor è inefficace, e pertanto dovranno essere applicate le condizioni economiche originariamente pattuite per le rate future, nonché la restituzione dei maggiori interessi eventualmente corrisposti in eccedenza, senza tuttavia considerare eventuali valori negativi degli interessi.

 

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